Note di biografia gramsciana, e sulle vittime italiane delle epurazioni staliniane
Le scansioni, con qualche passaggio evidenziato, del capitolo «Lo 'strappo' riluttante» di Silvio Pons, «Berlinguer e la fine del Comunismo», Einaudi, Torino, 2006 (vedi post), capitolo dedicato ai dibattiti nel PCI nei giorni successivi al colpo di Stato militare in Polonia, 1980. Segue qualche ulteriore brevissimo commento.
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Tre passaggi che colpiscono:
il giudizio liquidatorio delle posizioni di Tatò, che pur di Berlinguer fu stretto consigliere;
la teoria, attribuita a Berlinguer, delle tre fasi storiche del movimento socialista: socialdemocratica (fino alla prima guerra mondiale?), sovietica, e -terza- quella auspicata con protagonista il "movimento operaio nell'Occidente europeo" (fase eurocomunista?). Teoria che appare piuttosto bislacca, e che, se fu realmente teorizzata, fu un wishful thinking per evitarsi il dilemma, in effetti ineludibile, tra 'ci siamo sbagliati fin dal 1917' e 'nonostante tutto l'URSS è meglio e da difendere';
tra le righe, il danno di non aver lasciato andare Cossutta, che nelle note qui non riprodotte Pons suggerisce chiaramente che abbia agito in combutta con Ponomariov.
I motivi della riluttanza dello «strappo» furono probabilmente molteplici, e principale alla fin fine quello che nessuno modifica completamente delle ben radicate convinzioni con cui si è identificato per gran parte della propria vita (se non forse per eventi traumatici o a seguito di circostanze eccezionali). Valse comunque, io credo, non tanto il timore di un ampia emorragia di militanti e/o elettori -che non ci sarebbe stata (semmai ebbe un qualche peso il mito dell'unità)-, ma la contezza della difficoltà di collocare, nel quadro interno oltre che in quello internazionale, un PCI completamente divorziato da Mosca. Per il quadro interno, un qualsiasi tentativo di (ri)collocazione nell'area socialista (e di iscrizione all'Internazionale Socialista) avrebbe richiesto una modifica molto articolata di convinzioni, prassi di comportamento e apparati che nessuno ebbe di fatto la lucidità di affrontare (perfino dopo il 1989, e il campo libero lasciato dal collasso di PSI e PSDI, quella ricollocazione è stata molto parziale). Per il quadro internazionale, nessuno -nemmeno nei circoli iper atlantici- sembra che fu mai veramente interessato a un modifica di collocazione internazionale del PCI, in particolare se pensata fuori dalle specifiche strategie dell'alleanza atlantica, anche solo per il timore di contracolpi non programmati negli equilibri dello scenario europeo.
Primo post, introduttivo, di una breve serie con commenti alla monografia di Silvio Pons «Berlinguer e la fine del Comunismo», Einaudi, Torino, 2006, monografia dedicata a Enrico Berlinguer o -per essere più precisi- alla politica di collocazione internazionale del PCI promossa e perseguita da Berlinguer durante la sua segreteria, e alle ragioni del suo fallimento.
Silvio Pons, Firenze, 1955, studente di Giuliano Procacci, è oggi nei ruoli della Scuola Normale di Pisa, dopo aver svolto la maggior parte della sua carriera all'Università 'Tor Vergata' di Roma. Pons ha scritto estensivamente e intensivamente sulla storia del PCI, dell'URSS e del movimento comunista internazionale, ed è stato General Editor della Cambridge History of Communism, pubblicata nel 2017 da Cambridge University Press. I suoi testi sono in effetti i principali della storiografia del PCI degli ultimi 30 anni, e ineludibili per chiunque sia interessato in essa. Oggi Pons presiede la Fondazione Istituto Gramsci, dopo esserne stato per molti anni Direttore (dal 1999 al 2014), ed è quindi il principale conservatore della memoria storica del PCI, oltre che del lascito di Antonio Gramsci.
In «Berlinguer e la fine del Comunismo», la ricostruzione di Pons è piuttosto distruttiva della plausibilità complessiva della politica perseguita da Berlinguer (e quindi dal PCI), in particolare sia dei suoi presupposti circa la comprensione delle dinamiche e dei vincoli internazionali sia del profilo complessivo della critica al comunismo sovietico, e poi anche della errata comprensione delle possibili opzioni di corso politico che il PCI aveva negli anni tra il '68 e la fine dell'URSS (ma su questo Pons è meno esplicito, forse per il timore di esporsi in congetture su come sarebbe potuta andare). Un tale livello critico risulta particolarmente interessante per il ruolo che Pons, come detto, ha ricoperto e ricopre nel preservare la memoria (ufficiale? ma ufficiale di chi, oggi?) del PCI, e non è immediato quindi comprendere quale sia la sua posizione di fondo, il pulpito -se così si può dire- da cui sta scrivendo. Ma su questo forse alla fine della scrittura di questi post.
Come per per gli altri suoi lavori (per quanto abbia letto e possa giudicare), Pons si avvale anche in questo di una notevole ricerca di archivio, e le sue affermazioni sono quasi sempre accompagnate da riferimenti alle fonti originali, spesso inedite, e sempre pertinenti.
Rispetto a il riferimento alle fonti, personalmente soffro comunque l'assenza di un capitolo dedicato, con informazioni anche 'quantitative' di quante, oltre quali, ve ne siano a disposizione; tali informazione 'quantitative' aiuterebbe a capire meglio, da una parte, le diverse modalità secondo cui venne lasciata traccia di questo o quell'evento da coloro di cui si scrive (e quindi anche se vi furono circostanze poco documentate ma che ebbero invece un loro peso), e, dall'altra parte, quale siano i criteri adottati per la selezione storiografica dei documenti. A difesa di Pons, tale assenza appare molto diffusa nelle monografie italiane di storia contemporanea e ascrivibile quindi a uno stile prevalenente di studio ed esposizione.
Riproduco qui l'indice di «Berlinguer e la fine del Comunismo», rinviando ai post in cui mi permetto qualche commento: