mercoledì 22 luglio 2020 (revisione: 23 agosto 2020 20:04:31)
Koiné italo-comunista, circa 1983
Boffa, Chiaromonte, Natta, Spriano e Tortorella su Togliatti
Seminario "Il pensiero e l'opera di Palmiro Togliatti". Istituto Palmiro Togliatti. Frattocchie 12/13/14 ottobre 1983. Relazioni di Boffa, Chiaromonte, Natta, Spriano e Tortorella. Edizione della Sezione formazione e scuole di partito del Pci.
Merita rileggere questi opuscoli, se si vuole individuare la configurazione di opinioni che personalità apicali del PCI, ancora nel 1983, poco prima del crollo dell'URSS, mantenevano su se stessi, la propria storia e il proprio ruolo nella politica italiana. Si tratta di seminari non del tutto occasionali, apparentemente interni (ma non riservati), in cui quel che si dice (e quel che non si dice) mi sembra rappresenti abbastanza fedelmente gli elementi dell'identità di quel corpo di attori politici, e la lettura oggi di queste pagine, anche se ormai tediosa, può aiutare a collocare meriti, limiti e responsabilità storiche di tutta una generazione di dirigenti politici.
Benché dedicati al pensiero e l'opera di Togliatti, questi testi contengono pochissimi spunti analitici (o storiografici) circa tratti biografici precisi di Togliatti. I cinque seminari sono piuttosto l'esposizione del proprio 'togliattismo', ovvero di come formulare e difendere una koiné condivisa, e a cui evidentemente si chiedeva di aderire, nel delimitare gli ambiti del chi siamo e del cosa vogliamo del PCI 1983.
Non ho avuto modo di scansionare interamente gli opuscoli, mi limito a commentare alcune pagine che trovo significative.
Primo scansione dal testo di Boffa, dedicato a "La concezione dei rapporti internazionali in Togliatti". Boffa apre il suo intervento ricordando che Togliatti fu uomo del Comintern (con sottointeso che questo potesse essere il problema), per poi offrire una rivendicazione del suo operato. Il passo saliente è il seguente:
Questa rappresentazione irenica, 'apertura' vs. 'settarismo', sconta sempre la difficoltà principale: al VII congresso del 1935 non seguì solo la politica dei fronti popolari, ovvero l'incontro con e il riconoscimento di altre posizioni politiche e ideali, ma anche il terrore di massa in URSS (di cui nei cinque opuscoli non si da conto se non con qualche eufemismo, o al massimo in nota, come quella nella scansione qui sopra su i trozkisti). È io trovo significativo che qui Boffa neppure tenti di far risalire l'origine del terrore al 'settarismo', che sarebbe stata certo una tesi molto audace, anzi spudorata (che ciò proprio non fu, che anzi eliminare i 'settari' -nel senso qui usato di 'settarismo, sinistrismo'- fu uno dei motivi del terrore), ma anche tesi che avrebbe almeno dato conto del problema, fornito una qualche completezza all'argomentazione, ed evitato l'impressione che, ai vertici del Pci 1983, agissero ancora modi di difensiva autocensura su chi aveva fatto che cosa negli anni '30. Da questa premessa su 'apertura' vs. 'settarismo', ripetuta anche in altre pagine degli opuscoli, risulta come nel 1983 l'autorappresentazione della dirigenza PCI fosse ancora assai viziata dalla mancata volontà, e/o capacità, di discutere se e come la fortuna di Togliatti fosse inestricabilmente legata alla sua cooptazione nel 1935 ai vertici del Comintern proprio da quella dirigenza sovietica che diresse, subito dopo, la svolta iper terroristica del 1937-38.
(Certo non sarò certo io il primo a notarlo, nel 2020, con tutta l'acqua passata sotto i ponti, ma notarlo nuovamente credo sia ancora di qualche utilità.)
E rispetto a questa assenza, assume un certo rilievo la tesi di Boffa che nel secondo dopoguerra, nella gestione delle cosidette democrazie popolari dell'europa orientale, fu il ritorno al 'settarismo' (contro il VII congresso) a rendere alla fine sterili quelle esperienze; tesi a mio parere del tutto artificiosa, ma interessante come estremo tentativo di tenere insieme due esigenze: la non volontà, quasi una difficoltà psicologica, di denunciare l'adesione di Togliatti al gruppo prevalente a Mosca negli anni '30 (allo stalinismo), la necessità di distinguersi dalle prassi di governo dei partiti comunisti al potere nell'europa di area sovietica:
Stessa premessa, presentata anche con più forza, si trova in Chiaromonte, in "La concezione delle alleanze sociale e politiche", ivi giocata per esaltare la (presunta?) capacità di Togliatti di tessere una rete di alleanze sociali e politiche. I passi si commentano da soli.
Dei cinque opuscoli, il più interessante è quello di Natta dedicato al 'Partito Nuovo'. Nonostante i numerosi e un poco stucchevoli passi sull'adagio 'come siamo stati bravi a tenere tutto insieme', due considerazioni risultano centrali: una sul rapporto tra relazione con l'URSS e via nazionale; l'altra, esposta in maniera direi piuttosto impegnativa per l'autore, sul superamento di ogni concezione di monopartitismo:
Della 'forzatura' della via italiana, da Natta ottimisticamente declinata come decisa rotta di allontanamento dall'URSS (ma nell'ambito della divisione dell'Europa, della guerra fredda e del trovarsi 'di qua' del PCI è da verificare quali atti potessero essere contati come reale volontario allontanamento), possiamo comunque dire oggi che non fu poi così veloce che al naufragio dell'ammiraglia non sia immediatemente seguito anche quello del 'partito nuovo'. L'affermazione contro ogni ipotesi di monopartitismo - formulata in modo esplicito, e anche piuttosto coraggioso visto che Natta non manca di rimarcare quanto ciò fosse lontano sia dalla tradizione leninista sia dal pensiero dello stesso Gramsci (la critica alla figura gramsciana del Moderno Principe è perfino sorprendente)- con il senno di poi neppure è bastata. Perché? Io credo che la risposta sia in quello che oserei chiamare il relativismo della pur inequivoca impostazione di Natta: il rispetto del pluralismo, il superamento di ogni tendenza illiberale (ma Natta non usa mai le qualificazioni liberale/illiberale) e che "tende all'organicità" non dovevano essere solo "una risposta valida e reale al problema inedito [inedito?] del socialismo nelle società capitalistiche dell'occidente europeo", ma avere valore universale e quindi rimbalzare in una critica al monopartitismo sovietico; ovvero non era soltanto da escludere, in Occidente, il monopartitismo anche solo come lontana prospettiva, ma anche -e forse sopratutto- era da considerarlo intollerabile nella stessa URSS. Ma la difesa di una tale universalità del pluralismo non appare proprio, leggendo questi opuscoli, che fosse nell'orizzonte di Natta e degli altri autori, non ancora nel 1983!
Spriano, nel quarto opuscolo della serie: 'Il PCI nell'Italia repubblicana (1944-1964)', offre una storia del PCI come forza popolare e di popolo, sorta principalmente dall'esperienza della Resistenza e poi nel clima degli anni della ricostruzione materiale e morale dell'Italia, dopo le tragedie della guerra, per il "rinnovamento democratico" del paese, partito il cui "sviluppo naturale" viene rallentato ma non bloccato dalla scoppio della guerra fredda (per Spriano inizia con la dottrina Truman nel 1947) e l'anticomunismo degli anni del centrismo. Nelle pagine su la reazione all'attentato a Togliatti e in quelle sulla battaglia contro la legge truffa, l'impostazione di Spriano è chiara: Togliatti in quelle situazioni dimostra una convinzione profonda di rispetto della democrazia, della Costituzione, dello stesso ruolo di una pluralità di partiti: il PCI partecipa al gioco democratico - pluralista, ma Spriano sul punto non ha la chiarezza terminologica di Natta - per piena acquisizione valoriale, non strumentalmente e tatticamente, senza doppiezze.
Complessivamente il testo di Spriano mi appare una agiografia anche piuttosto semplice, che certo cita aspetti e comportamenti presenti e non secondari nell'esperienza storica del PCI, ma non accenna a nessuna delle domande difficili su i punti problematici, e anzi su alcuni di questi sorvola anche più di quanto accade negli altri opuscoli. A essere maligni, si potrebbe sostenere che non essendo mai stato veramente leninista e/o cominternista, e tantomeno stalinista, Spriano non si renda conto fino in fondo di che cosa stia parlando, nonostante gli anni di studio dedicati al PCI.
Fondamentalmente ingiuste, e storicamente del tutto errate, ma significative per capire la torsione della sua ricostruzione, mi sembrono le due pagine su Secchia, per Spriano eponimo della doppiezza:
Infine, rinvio alla lettura diretta dell'ultimo opuscolo, 'Il rapporto Democrazia-Socialismo', di Aldo Tortorella, che mi sembra il meno riuscito dei cinque (già il titolo è errato, che il problema era ed è coniugare libertà e socialismo) e - con il senno del poi - quello meno preveggente di come sarebbero andate le cose, e della profondità dei problemi.
sabato 9 maggio 2020 (revisione: 18 agosto 2020 00:09:44)
I viaggi di Carlo Galluzzi
I ricordi di viaggio di un diplomatico del PCI
Carlo Galluzzi, La Svolta, Gli anni cruciali del Partito Comunista Italiano, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1983
Carlo Galluzzi (Firenze, 1919-2000) viene presentato, nel risvolto di copertina di La Svolta, come 'responsabile del lavoro internazionale del PCI', dal 1962 al 1969. In La Svolta Galluzzi racconta i suoi viaggi nel composito mondo del comunismo reale degli anni '60 e '70 del secolo scorso, e in particolare degli incontri, di alto livello, con le dirigenze comuniste, a cui egli partecipò quale appunto responsabile delle relazioni del PCI con i partiti 'fratelli'. Il racconto è piano e fattuale, con poca o nessuna indulgenza retorica, e un certo gusto per una aneddotistica leggera, che ne rende la lettura piacevole. Il libro è del 1983, predata il crollo dell'URSS, e anche la morte di Berlinguer del 1984, ma è successivo al colpo di stato di Jaruzelski in Polonia del 1981; vi si legge la consapevolezza che una certa storia si è conclusa, ma senza alcuna preveggenza di come poi finirà. Si tratta di una lettura istruttiva, che mostra, da un occhio interno, lo strano ambivalente status del ceto dirigente del PCI nell'Italia repubblicana, post guerra. Da una parte, poco o nulla si ritrova, in Galluzzi, di una qualche attitudine esistenziale antagonista, ovvero nulla di quel che, pur nelle innumerevoli differenze di personalità, circostanze e comportamenti, era stata comunque un tratto presente e identificativo delle biografie della dirigenza comunista, sia della prima generazione figlia dell'entusiasmo per il 1917, sia della seconda emersa nell'esperienza della seconda guerra mondiale e della resistenza. Quella del Galluzzi, di biografie, non presenta traccia del fascino della rivoluzione, e a quanto leggo neppure un episodio analogo ai tre mesi di carcere subiti da un giovane Enrico Berlinguer per aver partecipato a degli scontri di piazza. La sua, nei modi e nel racconto, sembra piuttosto la carriera di un manager, in giacca e cravatta, con responsabilità importanti, anche se non apicali, e internazionali, una buona intelligenza degli uomini e delle cose del mondo, ma che agisce nei limiti del suo incarico 'aziendale', intellettualmente estraneo (più estraneo che ostile) a considerazioni radicali, ideali o ideologiche che siano. Assenti sono nel libro considerazioni che in qualche modo spieghino perché si sia considerato un comunista, abbia assunto rilevanti responsabilità in un partito non genericamente progressista e democratico, ma almeno sulla carta marxista. E dall'altra parte, questi viaggi di Galluzzi, non tanto per i luoghi e le persone che incontra ma sopratutto per i luoghi e le persone che non incontra, mostrano ampiamente e ripetutamente un elemento se non antagonista certo incongruo rispetto alla situazione storica italiana e delle sue (forzate, dovute, volute?) relazioni internazionali nel secondo dopoguerra. Mi riferisco ovviamente alla circostanza che Galluzzi -nell'arco temporale del libro, per quello che lui stesso racconta- non sembra aver avuto contatti internazionali esterni al mondo del comunismo reale, se non alcuni rari e piuttosto impacciati con la socialdemocrazia tedesca, nessuno pare con il mondo democratico e/o liberal statunitense (o il movimento dei diritto civili), e neppure con altri, per esempio nel Sud del mondo. Ce ne dovremmo sorprendere? Io credo di si. Certo potrebbe essere giudicato un facile e un poco ipocrita anacronismo lo stupirsi per quella preferenza e familiarità con la dirigenza del PCUS, oggi che tutto quel mondo è scomparso. Ma la dialettica io credo sia più lunga: alla sorpresa facile, 'perbenista', di chi giudica sulla base soltanto del panorama presente, per cui, essendo ormai lontana la presenza dell'URSS, rimane oscuro come un persona dall'apparenza del tutto integrata nell'Italia paese 'occidentale' possa avere avuto tale familiarità, si può certo ribattere riportando alla memoria i tanti elementi storici e politici che rendevono il percorso umano e politico di un Galluzzi del tutto plausibile e perfino meritorio. Ma a un ulteriore livello di analisi, anche da parte di chi non eviti di allungare lo sguardo fin dentro la storia meno recente, tutte le principali circostanze prese in dovuta considerazione, io credo che la chiara accettata esclusività delle frequentazioni di un Galluzzi, e con lui di quella parte d'Italia che egli rappresentava, devono invece comunque soprendere, e chiedere -a tutti e agli storici in particolare- una spiegazione. Ovviamente, si tocca qui un punctum dolens della intera presenza del PCI nella storia repubblicana, e di quali costi politici ciò abbia comportato (o se invece vi sia un motivo in qualche modo da rivendicare e di orgoglio). Nonostante il suo profilo di diplomatico di carriera (benché di 'partito'), l'autore di La Svolta non sembra veramente rendersi conto, nemmeno in un libro di bilanci come questo, che non poteva eludere di discutere l'assenza di alcune mete nei suoi viaggi e relazioni; già nel 1983 quelle assenze dovevano essere spiegate se non proprio giustificate (non so, e mi incuriosisce, se il Galluzzi vi abbia riflettuto poi in anni successivi). Come sia stato possibile che un tale non poter eludere sia stato invece piuttosto eluso da tutto quel ceto politico è un interessante problema storiografico, di cui questo ormai datato libro fornisce chiare evidenze, anche se non ne contiene una adeguata spiegazione. Infine, ci fu Svolta? Che Galluzzi fosse convinto di averla cercata non posso metterlo in dubbio, che la raggiunse, e per la strada maestra, il suo stesso libro alla fine non lo asserisce.
I viaggi.
I capitoli di La Svolta, intitolati con nomi di città, corrispondono alle trasferte di 'lavoro internazionale' del Galluzzi, tra cui alcuni missioni piuttosto impegnative al seguito dei successivi Segretari del PCI: Togliatti, Longo, Berlinguer. In particolare:
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Mosca, 1961. Viaggio con la delegazione italiana al XXII congresso del PCUS, quello in cui Krusciov riprese con ulteriore forza la sua battaglia interna, e a cui seguì in Italia il Comitato Centrale del Novembre 1961, di cui è stato autorevolmente detto, anni dopo da Natta, che fu "il momento decisivo della riflessione critica e della resa dei conti con lo stalinismo". Interessante che Galluzzi, a quel tempo un funzionario di 42 anni, sia stato invitato ad accompagnare personalmente Togliatti, che viaggiò in treno, da Amadesi, segretario particolare di Togliati fin dagli anni trenta moscoviti e stalinisti, e che poi per esempio sarà anche nella commissione interna di indagine su Secchia e la fuga di Seniga. Galluzzi non lo dice espressamente, ma sembra proprio che si trattò di una investitura importante, da parte del ristretto nucleo nel PCI che rappresentava la massima continuità nelle relazioni con i sovietici. Il capitolo arriva fino alla scomparsa di Togliatti, il suo memoriale di Yalta, e la destituzione di Krusciov. Su quest'ultimo i giudizi di Galluzzi sono piuttosto severi, e confermano che il PCI di Togliatti rimase piuttosto freddo circa tutta l'esperienza kruscioviana, ma la sua destituzione viene qui giudicata una vittoria dei conservatori.
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Il Cairo, 1965. Resoconto molto disincantato sull'incontro della delegazione del PCI guidata da Pajetta con la Lega Socialista Araba e la 'rivoluzione' nasseriana. Un viaggio che appare svolto per dovere, forse suggerito, nell'ambito del tentativo sovietico di integrare Nasser nella politica internazionale di Mosca, tentativo che fallirà con la sconfitta di Nasser nella guerra contro Israele del 1967. Nell'economia di La Svolta, appare l'unico viaggio nel sud del mondo, anche se chiaramente non per una qualche simpatia per gli allora non-allineati, o per personalità e situazioni eccentriche rispetto allo competizione politica principale di quegli anni.
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Varsavia, 1966. Viaggio al seguito di Longo, per incontrare Gomulka. Strano viaggio, descritto come un tentativo di Longo di trovare una intesa con il leader polacco, e il suo profilo di indipendenza da Mosca; tentativo indicato come destinato a fallire, non fosse altro perché in ritardo rispetto alla parabola di Gomulka stesso, la sua autonomia viene detta dal Galluzzi a quel momento ormai "riassorbita".
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San Remo, 1966. Incontro bilaterale PCI-PCF. Un riavvicinamento al PCF, voluto da Berlinguer nel tentativo di costituire una fronda nella paventata riunione dei partiti comunisti voluta da Mosca in quello scorcio di anni. La descrizione di maniera delle differenze tra PCF e PCI, settario e iper leninista il primo, figlio dell'unità antifascista il secondo e per questo più democratico, mi sembrono le pagine meno riuscite dell'intero libro.
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Pechino, Hanoi, Pyongyang (e tappe a Mosca), 1966-67. Le follie della rivoluzione culturale cinese, La Pira e la lotta del Vietnam, gli incontri con Ho Ci Minh e Giap, lo sproloquio (antimaoista) di Kim Ir Sun a Pyongyang, le lunghe attese negli aeroporti, e le arzigogolate pratiche per avere i visti, e anche le tappe -all'inzio e alla fine del giro orientale- a Mosca a riferire con Suslov e gli altri della dirigenza sovietica. Un viaggio al seguito di Berlinguer in effetti memorabile, che verrrà ricordato anche nei necrologi dedicati a Galluzzi nel 2000. Nell'insieme a me sembra un viaggio già di investitura moscovita per la nomina di Berlinguer a segretario del PCI (del 1972, ma già dal 1969 Berlinguer lo sarà di fatto), e quel che Galluzzi racconta, oltre la messe di aneddoti, mi sembra lo confermi. Interessante l'incipit del capitolo, con il ricordo dell'eccidio dei comunisti indonesiani e dei loro errori.
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Karlovy Vary, 1967. Conferenza dei partiti comunisti europei, a quanto leggiamo voluta e preparata dal PCI, e il cui focus ("pur sotto lo schermo del dibattito sui principi") fu "il problema tedesco". Siamo all'inizo della Ostpolitik tedesca, e dell'emergere di Brandt, e il protagonismo del PCI è molto interessante. Suona un poco bizzarro (ma deve avere avuto una sua importanza che mi sfugge) l'elenco - presentato senza l'usuale disincanto - dei partiti comunisti presenti: Galluzzi non dimentica di ricordare quelli di Berlino Ovest, di San Marino e dell'Irlanda del Nord. Interessanti i dettagli delle relazioni di allora tra partiti comunisti, con gli italiani che dopo la conferenza informano gli assenti jugoslavi e rumeni su gli esiti della stessa. Nell'insieme un episodio che mostra come, in quegli anni, l'ambito di movimento del PCI, per quanto originale, fosse ancora molto all'interno di una ricerca di assenso con il PCUS. A me sembra Galluzzi si dispiacqua che il proprio partito non avesse una distanza dal PCUS quale quella allora ormai scontata di jugoslavi e rumeni, verso cui in effetti nell'intero libro non leva alcuna critica.
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Parigi, 1967-68. Su richiesta di Fanfani, che sperava di ospitare a Roma i/dei colloqui di pace per il Vietnam, Galluzzi si muove per saggiare gli interlocutori vietnamiti. Il tentativo di Fanfani fallirà, per ovvie ragioni che Galluzzi pure elenca. Episodio interessante per pensare a un certo ruolo di spalla che il PCI potè assumere nella relazioni internazionali della DC e del mondo cattolico italiano.
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Bonn, 1969. Il viaggio con Berlinguer nell'allora Germania federale e occidentale, per incontrare Brandt e gli uomini della socialdemocrazia tedesca impegnati nella Ostpolitik; un viaggio preparato fin dalla conferenza di Karlovy Vary e con successivi incontri a Roma, e che poteva risultare epocale, ma che invece fu condotto in sordina, l'incontro diretto Berlinguer-Brandt mancato per un disguido di orari (ma molto tra le righe Galluzzi sembra suggerire un disguido cercato più da Berlinguer che da Brandt), i possibili frutti non matureranno mai completamente ("in realtà il PCI e la SPD non erano pronti a un reale confronto").
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Praga (e tappa finale a Mosca), 1967-1968. Il ricco, frenetico resoconto dei numerosi viaggi a Praga durante la sua Primavera, prima per capire, poi per solidarizzare e infine per cercare di correre ai ripari. Il viaggio a Praga del Maggio 1968, in cui Longo si espose nel sostegno a Dubcek, quello con Berlinguer a Mosca a sentire le prove di Ponomarev a giustificazione dell'invio dei carri armati a Praga, con il racconto del braccio di ferro su come stilare il comunicato finale congiunto PCI-PCUS. Nel mezzo le giornate dell'agosto 1968, quelle dell'arrivo dei carri armati, a cercare di contattare Longo in vacanza in una dacia in URSS, non preavvertito dai russi degli imminenti sviluppi.
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Mosca, 1969. Conferenza mondiale dei partiti comunisti e operai, voluta dal PCUS. Riunioni preparatorie, emendamenti e riscritture di documenti, la pesata e simbolica formazione della delegazione italiana, il diverso schierarsi delle delegazioni (e appare oggi bizzarro che la posizione che Galluzzi presenti come la più vicina a quella del PCI sia quella del rumeno Ceausescu). "Il discorso di Berlinguer [...] fu una manifestazione di autonomia, all'interno di una scelta di campo che rimaneva ferma".
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Tokio (e anche Phnom Penh, di nuovo Tokio, Irkutsk e Mosca), 1970. Tragicomico viaggio con una piccola delegazione esteri del PCI, nel vano tentativo di poter riallacciare i rapporti con il partito comunista cinese. Tappe a Tokio, una visita di cortesia al partito comunista giapponese, copertura del tentativo di ottenere un visto per la Cina senza riuscirci; a Phnom Pehn in una seconda attesa di un visto per entrare in Cina che non arriverà; in Siberia in attesa di un volo per Pyongyang che neppure arriverà. Di fatto un viaggio flop che appare concludere l'esperienza di diplomatico del PCI di Galluzzi, e che manifesta la difficoltà anche solo logistica per il PCI di realizzare iniziative indipendenti da Mosca nell'ambito del movimento comunista. (Galluzzi spiega il fallimento con l'incontro Kossighin-Ciu En Lai in occasione dei funerali di Ho Ci Minh, che rese ai cinesi un incontro con una delegazione italiana non più opportuno. I rapporti tra PCI e PCC si ristabiliranno solo nel 1980, con un noto viaggio di Berlinguer). Interessante l'incipit del capitolo, con il viaggio a Bucarest a chiedere spiegazioni della visita di Nixon, e in cui i rumeni millantano conoscenza della volontà cinese di riallacciare i rapporti con il PCI, da cui il girovagare orientale di Galluzzi.
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Strasburgo, 1981. Colpo di stato in Polonia, per Galluzzi l'evento cesura, almeno personale, del cordone con l'URSS. Cedendo un minimo alla retorica, ricordando il volo che lo porta a Strasburgo quale europarlamentare (non eletto, ma nominato dal Parlamento nazionale), Galluzzi conclude il suo racconto con un vago appello al dialogo tra le sinistre europee.
Qualche nota di lettura
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Luigi Longo. Benché oggetto di diverse ironie, Longo appare nei resoconti di Galluzzi muoversi con una certa decisione, negli anni della sua segreteria, dal 1964 al 1968, in appoggio alle manifestazioni di autonomia e indipendenza nella Europa dell'Est di allora. I suoi due tentativi, con Gomulka e con Dubcek, risultarono troppo ottimistici, ma anche -con il senno di poi- piuttosto interessanti, e devono aver messo Longo in rotta di collissione con Mosca più di quanto di solito si pensi. Benché molto più elaborate, le successive iniziative di Berlinguer appaiono si muovessero con maggior cautela.
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Germania (e socialisti italiani). La questione tedesca è stata certo quella centrale nello scacchiere europeo della guerra fredda. Galluzzi racconta molto, tra conferenza di Karlovy Vary e mancato incontro con Brandt, di come il PCI fosse attento alla questione. Come e quando l'evolversi della questione tedesca nell'Europa divisa del secondo dopoguerra scandisca anche i tempi delle contorta ricerca di una mutazione di collocazione dei comunisti italiani è una questione interessante, che meriterebbe un altro post (o meglio un attento studio dedicato). Di fatto quando la prima si risolve, anche la seconda trova la sua definizione (certo si potrebbe dire, per forza maggiore). (E problema nel problema, io trovo significativo che Galluzzi nemmeno accenni, nel racconto della ricerca di un rapporto con Brandt e la socialdemocrazia tedesca, se e come i socialisti e socialdemocratici italiani furono coinvolti).
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Ufficio Esteri del PCI. Il PCI ebbe un piccolo apparato di funzionari e dirigenti destinati alle relazioni internazionali. Chi furono esattamente? Quale cultura e preparazione avevano? Secondo quali modelli e prassi comportamentali agirono? Quali furono i protocolli seguiti per la selezione del personale 'esteri' del PCI? Come si relazionarono con la diplomazia italiana e come furono controllati dalla forze di polizia italiana e/o della sicurezza atlantica? Quali snodi storici affrontarono e come? Non so se la ricerca delle carte e il loro studio sia stato compiuto da qualcuno, ma sarebbe interessante anche solo sapere quanti missioni, oltre a quelle raccontate da Galluzzi, ci furono, e chi vi partecipò.
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La Svolta. Galluzzi non precisa cosa intenda per Svolta, e il libro non include una disamina dei tratti peculiari del PCI da cui poi Svoltare. Nel capitolo finale la Svolta è verso una auspicata sinistra europea, ma durante lo svolgersi dei viaggi non è chiaro che quella fosse la meta. Per quanto oggi possa sembrare inverosimile, in diversi passaggi, è il distacco da Mosca di jugoslavi e rumeni, oltre che dei cinesi, che sembra interessare all'autore, come se -senza dirlo- avesse pensato a un futuro del PCI continuista nei suoi tratti fondamentali, ma portato dalle forze centrifughe del mondo del comunismo reale sufficientemente lontano dalla Mosca sovietica. Non andrà così.
venerdì 17 aprile 2020 (revisione: 26 marzo 2022 21:04:51)
St. Cyprien, Francia. Bollettino, aprile 1939
Bollettino del Gruppo Italiano del Campo di Concentramento di St. Cyprien, Francia, Aprile 1939
Dagli archivi del Comintern, dal fondo 545 dei materiali relativi alla Brigate Internazionali in Spagna, questo Bollettino dei reclusi italiani a St.Cyprien, uno dei campi in cui furono ristretti i reduci delle Brigate. Siamo nell'aprile 1939, la sopresa del patto Molotov–Ribbentrop -dell'agosto successivo- non è ancora esplosa, ed è interessante leggere come ci fossero discussioni sul quel che poteva accadere. Si noti la citazione della posizione di Cocchi, che romperà con il PCdI sull'adesione al patto.
Collocazione archivistica, RGASPI, Fondo 545, Inventario 4, Fascicolo 17, Bollettino e impaginazione del giornale murale del gruppo italiano del campo di concentramento di Saint-Cyprien (Ф.545, оп.4, д.17, Информационный бюллетень и макет стенной газеты итальянской группы концлагеря Сен-Сиприен), vedi a qui.