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martedì 19 gennaio 2021 (revisione: 21 febbraio 2021 19:11:47)

D'Alessandro su PCI e Comintern

Intervento al convegno "Il comunismo italiano nella storia del novecento"


La registrazione dell'Intervento di Leonardo D’Alessandro al convegno "Il comunismo italiano nella storia del novecento", Fondazione Istituto Gramsci, 12-14 novembre 2020, Roma. (vedi post)

Video originale a https://www.fondazionegramsci.org/convegni-seminari/il-comunismo-italiano/



Qualche commento, dopo un primo ascolto.

(~1.35) "La chiave di lettura che vede negli interessi dello Stato sovietico  e nella proiezione internazionale del movimento comunista un nesso costituente cruciale per leggere la storia dei partiti comunisti si è rilevata negli ultimi anni sotto molti aspetti proficua". Negli 'ultimi anni'? Decine di commentatori, militanti, dissidenti, studiosi  lo hanno sostenuto, fin dagli anni della bolscevizzazione, semmai l'apertura degli archivi ex-URSS ha confermato con la forza dei documenti ciò che per molti versi era ovvio. Non mi è chiaro come D'Alessandro possa sostenere qualcosa del genere.

(~5.25) D'Alessandro presenta "tre chiavi" per delineare il rapporto PcdI-Comintern: "[i)] il contrasto a viso aperto tra il Partito e l'Internazionale; [ii)] la cultura politica del gruppo dirigente in relazione all'apprendistato cominternista; [iii)] la figura Togliatti nella segreteria dell'Internazionale comunista e il problema della lotta al fascismo".

(~5.55-10.30) Per la prima 'chiave', D'Alessandro ricapitola il contrasto tra la dirigenza bolscevica e le posizioni del primo PCdI (estremismo di Terracini, opposizione della segreteria di Bordiga al Fronte Unico, evolversi della posizione di Gramsci, "commissariamento e disciplinamento" da parte dell'Internazionale, ecc.) dal 1921 fino almeno al congresso di Lione del 1926, e forse anche allo scambio epistolare Gramsci-Togliatti del 1926 (che però non viene ricordato). Sono cose note, che D'Alessandro ricapitola in modo chiaro, ma abbastanza scolastico.

(~10.30-15.20) Per la seconda 'chiave', D'Alessandro sottolinea, dopo "la cesura del 1926", il ruolo della "disciplina" come tratto caratteristica della cultura politica, e dell'azione, del funzionario cominternista. Qui, con parole di Terracini, D'Alessandro cita le varie espulsioni e le perdita di ogni dibattito interno. Ovviamente del tutto condivisibile, ma per individuare i rappresentanti più tipici di questa cultura  D'Alessandro afferma qualcosa a mio parere di dubbio: egli collega la disponibilità al disciplinamento all'adesione alla politica del social-fascismo e della lotta classe contro classe, e quindi (~14.20) fu "la generazione più giovane dei Longo e Secchia [...] più pronta a recepire senza remore la nuova dottrina dell'Internazionale" (perfino mettendo in discussione la guida di Togliatti in questa fase). Quel 'senza remore' mi sembra ingiusto verso Longo e Secchia, e premessa a il punto debole, e direi continuista di una certa autorappresentazione del PCI, della sua esposizione.

Il passaggio chiave del talk è il seguente: (~14.45-16.30) "Solo l'impatto dell'ascesa di Hitler modificò lo scenario [del socialfascismo], ridando al Comintern uno spazio di manovra in cui riacquisì priorità la mobilitazione antifascista di massa. Rimane per molti versi paradossale che in questa nuova fase propedeutica alla svolta dei fronti popolari, i vertici del Comintern attraverso Manuil'skij accusassero il PCdI di carbonarismo e di isolamento settario dalle masse senza nemmeno avvertire l'obbligo di sottoporre a autocritica il precedente indirizzo. Ma d'altronde questa nuova fase di apertura, che trovò la sua massima espressione come sappiamo nel VII Congresso dell'Internazionale comunista, avrebbe avuto ancora un nuovo ripiegamento durante il terrore. Ancora una volta come nella svolta di pochi anni prima durante il terrore il Comintern avrebbe privilegiato figure ritenute più affidabili e disciplinate, la figura di Berti rappresenta in modo emblematico anche se non esclusivo questa nuova fase. I disorientamenti generati nel Comintern e e nel gruppo dirigente del Partito dal patto Molotov-Ribbentrop dell'Agosto del 1939 complicarono ulteriormente la situazione.  Impressione davvero l'unanimità del Collettivo comunista del confino di Ventotene, e tra essi Scoccimarro, Secchia e Longo nel decretare l'espulsione di Terracini e Camilla Ravera per essersi pronunciati contro la firma di quel patto, per di più la decisione divenne esecutiva nell'ottobre del  1942 quando ormai quel patto era stato superato dagli eventi, che avevano comunque dato ragione ai due espulsi."

Ora il passare dalla posizioni militanti di Secchia e Longo del 1930, al Berti del 1938 e all'episodio di Ventotene, senza assolutamente citare -per indicare alcuni esempi contrari-  il ruolo di un Roasio nella schedatura degli emigranti politici italiani a Mosca, gli scritti di Togliatti  a favore dei processi farsa moscoviti e la difesa del patto Ribbentrop-Molotov nelle Lettere di Spartaco, sembra davvero molto molto ardito. Al fondo, la tesi implicita di D'Alessandro sembra sia che il terrore fu effetto di un "ripiegamento" verso le tesi 'classe contro classe' del periodo 1928-1933 e gli estremismi settari, tesi che si scontra con l'evidenza che tra le vittime vi furono sopratutto gli 'estremisti' (e i concilianti con quelli), e non i sostenitori della nuova politica. Si tratta di una riformulazione della narrativa cara all'autorappresentazione del PCI (al riguardo vedi post), ma che falsa la ricostruzione di come andarono le cose: le politiche sancite al VII congresso e l'eliminazione fisica delle opposizioni politiche e sociali in URSS del 1937-38 furono nei fatti in gran parte responsabilità delle stesse persone, e devono essere considerate e capite come i due lati della stessa moneta.

(~17.10-fine) Per la terza 'chiave', la figura di Togliatti, D'Alessandro segue la rappresentazione intermedia: complice di Stalin ma controvoglia, salvato da peggior fine grazie alla salvifica missione in Spagna. Io credo che l'analisi attenta di documenti, date e situazioni aiuti a sostenere che in Spagna Togliatti fu invece esattamente il convinto, fidato (ma non per questo inarticolato) emissario del circolo staliniano (e semmai di  Longo  si potrebbe forse sostenere che fu segnato dal lato plurale e antifascista, e non strettamente cominternista, dell'esperienza delle Brigate internazionali). L'esposizione di D'Alessandro non evita di ricordare gli episodi censurabili imputabili a Togliatti (in particolare il più noto, la firma nell'atto di scioglimento del partito polacco),  ma risulta nel complesso a mio parere di quelle in cui una notevole accondiscendenza verso Togliatti è più assunto che conclusione del ragionamento.

Nota. D'Alessandro è autore (tra molti altri lavori), di «Per la salvezza dell’Italia». i comunisti italiani, il problema del fronte popolare e l’appello ai «fratelli in camicia nera», in Studi Storici, Anno 54, No. 4, Ottobre-Dicembre 2013, pp. 951-987 (leggi a Jstor, per comodità copia locale).


lunedì 18 gennaio 2021 (revisione: 23 gennaio 2021 12:51:21)

"Il comunismo italiano nella storia del novecento". Un convegno.

Un convegno della Fondazione Istituto Gramsci, 12-14 novembre 2020




In genere, ognuno studia i suoi: la biografia di un personalità cattolica è scritta spesso da un cattolico (così mi sembra la bibliografia su Paolo VI); Spriano scrisse la sua Storia del PCI in quanto storico (quasi) ufficiale del PCI; la Rivista storica dell'anarchismo è stata una iniziativa di un certo valore realizzata da simpatizzanti, più o meno militanti, dell'anarchismo; Rosario Romeo credo si possa dire scrisse la biografia di Cavour da liberale (nel senso del partito); e così anche per molta o tutta la storiografia del socialismo italiano, per quella su le minoranza religiose italiane, e credo anche per la storia militare, la massoneria, la storia sindacale,  ecc., ecc..

Per la storia politica, più o meno recente, è sempre così? Forse no: la monumentale biografia di Mussolini di De Felice non può essere considerata di parte fascista, nemmeno dai più critici, ma potrebbe essere l'eccezione che conferma la regola stante la particolarità del soggetto, e il principio del cuius regio, eius historia ha sicuramente ampia validità e reciproco riconoscimento. Non dovrebbe essere così? La storiografia politica dovrebbe essere sempre non di 'parte'? Dovrebbe e potrebbe essere asettica e neutra? E quale potrebbe essere la metodologia per una storiografia neutra rispetto alle posizioni che studia? ('neutralità' sarebbe poi la nozione appropriata?)  Sicuramente non tutta la storiografia 'di parte', quantunque 'di parte', è agiografia, anzi; e vi è sicuramente un elemento di onestà nell'occuparsi della storia dei propria parte, nessuno pretende (e pretenda) di scrivere libero dalla parzialità di una posizione ideale/ideologica.  Al peggio la storiografia (o presunta tale) è solo polemica politica spicciola condotta con altri mezzi, faziosità mascherata da erudizione; ma al meglio la ricerca storica può essere γνῶθι σεαυτόν, esercizio per sapere chi davvero si è, quale il percorso per cui siamo ciò che siamo, e l'autobiografia -il capire la propria storia- potrebbe apparire il genere da privilegiare. E poi quando la storiografia pretende (sempre? può farne a meno?) il ruolo di giudice della storia, di indicare responsabilità e restituire meriti, la dialettica tra imputazione di atti, difesa (o accusa) del proprio (s)oggetto di studio e descrizione 'oggettiva' dello svolgersi della sua vicenda risulta più credibile quando è manifesto da che parte si scrive.

Per quanto scolastici, questi i pensieri che la locandina del convegno della FIG mi suscita. E nello specifico la domanda ovvia è: da che parte parla, da che parte sta, questo gruppo di studio raccolto dalla FIG di Roma? In prima battuta, direi che la parte sia quella del PCI, essendo la FIG il luogo della memoria del PCI (e le bibliografie di alcuni degli oratori lo conferma), ma in seconda battuta non è poi cosi chiaro che cosa ciò, oggi, possa esattamente voler dire e quale parte quella sia, e non solo per il banale motivo che il PCI non c'è più. Una domanda da riprendere in un altro post, che essa mi sembra legittima, giustificata, e necessaria per mettersi nella giusta prospettiva per comprendere i motivi degli studi che in questa tre giorni sono presentati, ma domanda dalla risposta non scontata come potrebbe apparire.

Una nota: per effetto della emergenza pandemica, il convegno si è svolto in video conferenza tra gli oratori, con il risultato (positivo) della immediata disponibilità della registrazione delle video conferenze, oggi visionabili (e scaricabili) dal sito della FIG (credo siano dirette Facebook). Ci vogliono alcune ore libere per rivedere tutti gli interventi, ma ognuno può organizzarsi la visione come meglio crede, e nel complesso il tutto risulta assai comodo.

Qualche osservazione sulla selezione dei temi degli interventi.

Si scrive 'comunismo italiano' e si intende la storia del PCI, e ovviamente uno potrebbe subito obiettare che il comunismo italiano comprese anche personalità esterne alla storia del PCI, o meglio - che la formulazione precisa qui non è immediata- esterne al gruppo (i 'centristi') che prevalse nelle varie dispute interne della prima storia del PCI. Insomma, la prima sessione doveva forse prevedere un intervento dedicato a Bordiga, alle particolarità del suo comunismo, e alla sue riflessioni nel corso del tempo (e forse similmente per  Tasca e gli altri 'destri'). O forse no, che appunto ognuno parli dei suoi, e questa assenza non deve scandalizzare, e non mi scandalizza, anzi la trovo, come dire, rispettosa (anzi se sospetto che sia per ragioni diverse dal rispetto).

(A esser pedanti, un problema assimilabile si pone per i diversi che si sono dichiarati comunisti negli anni del dopoguerra ma si sono formati fuori dal PCI e ne sono sempre rimasti sostanzialmente estranei).


Della prima sessione, che copre gli anni fino alla seconda guerra, mi scandalizza invece l'assenza di un intervento che non doveva mancare. La FIG non si può permettere di non tematizzare il rapporto tra PCI e terrore staliniano. Assenza ingiustificabile, che il tema va discusso non solo per ricapitolare i termini della partecipazione del gruppo togliattiano (che io credo fu piena, solo limitata semmai dalla marginalità degli italiani a Mosca), ma anche per porre nei propri termini la questione, primaria, di quanto la condivisione della giustificabilità della eliminazione fisica dell'opposizione politica e sociale fu elemento costitutivo del gruppo dirigente del PCI, consolidatosi appunto in quella 'prova' e grazie a ciò poi al potere fino a tutti gli anni '70 del secolo scorso. Qui vige ancora la rimozione che fu di tutta la storia del PCI fino alla fine, ed è omissione che appare oggi intollerabile.

Tornando agli esordi, mi sarebbe piaciuto leggere un intervento sul formarsi dell'entusiasmo diffuso per le vicende russe, tra Grande Guerra e successivo dopoguerra. Quale fu la percezione in Italia di quel che stava accadendo in Russia, e se quella percezione anche si modificò, dal 1917 al 1921, e poi fino al 1926, via via che la realtà sovietica si andava fissando secondo certe linee, e di come tutto ciò condizionò il formarsi del PCI.

Per il secondo dopoguerra, sono presenti gli interventi su temi canonici: Resistenza, partito di massa, guerra fredda. Forse in un qualche titolo avrei tematizzato il rapporto tra Italia sconfitta e successo del PCI, e il collocarsi del PCI nella ripartizione dell'Europa in aree di influenza.

(Una mia ipotesi: che il PCI non fu mai vissuto come una anomalia e/o una ambiguità e/o una eccezione nella divisione di Yalta, ma dalle quattro potenze alleate fu sempre inteso essere la versione italiana della Germania dell'Est -zona sovietica nella nazione sconfitta-, ben collocato nella divisione di Yalta, e -in quei precisi limiti- rispettato da i diversi player).

E forse un intervento avrebbe dovuto tematizzare il problema della 'discriminazione', dal 1948 e fino al 1989, e quali partite politiche (le più difficili delle cosidetta prima repubblica?) si siano giocate  intorno alle modalità di gestire (articolare, compensare, superare, affievolire, confermare, ... ) tale discriminazione.

Nel comprendere il garbuglio di vincoli internazionali, collocazione del PCI, presenze militari, ecc., un paio di ricerche più specifiche sarebbero sicuramente utili e un invito a chi,  come diversi degli oratori,  passa molto tempo a ricercar carte negli archivi. Da una parte la storia del significativo Ufficio esteri del PCI, il profilo dei successivi responsabili (Galluzzi, Segre, Rubbi) e della piccola ma significativa rete di contatti diplomatici che il PCI ebbe e mantenne (tra cui direi gli inviati esteri dell'Unità); una storia che, dettagliando nel concreto quotidiano i contatti internazionali del PCI, ci aiuterebbe a capire il retroterra di difficoltà, scelte, carriere, politiche. Dall'altra le attività che sicuramente ci devono essere state di controllo del PCI da parte della sicurezza italiana (e/o USA). Sembra non plausibile che non vi sia stato un ufficio centrale per raccogliere e vagliare informazioni attendibili sulla vita interna della dirigenza PCI, i suoi rapporti con i paesi allora oltre cortina, la paura della presenza in luoghi delicati (vertici militari, industria militare e nucleare, istituti finanziari, diplomazia), o che non sia stata mantenuta una rete di confidenti e infiltrati. Una domanda a mio parere ovvia per capire il concreto di come i vincoli internazionali vennero attuati, ma che viene chiesta assai raramente. Passati tanti anni dalla conclusione della guerra fredda e dallo scioglimento del PCI, dovrebbe essere possibile capire se delle carte furono prodotte, e nel caso da chi (servizi, Carabinieri, un Ufficio affari riservati?), se sono ancora  conservate, o se via via furono distrutte, e nel caso perché.

Cambiando ambito e sessione, ampia la selezione di interventi su temi economico-sociali (modernizzazione, conflitto, Mezzogiorno, Donna e femminismo, il 68, ambientalismo, pacifismo, mass-media, ecc.), anche se nell'insieme la selezione sembra quella di un palinsesto di temi per uno special celebrativo di un rotocalco, o una campagna elettorale. Manca qualche tema meno ovvio, ma che forse ha lavorato nel profondo: quali genalogie possono individuarsi nella cultura media della dirigenza del PCI, a parte e oltre quelle dichiarate; quale il rapporto con la complessa tradizione giuridica italiana;  con quale pensiero cattolico ci fu minore distanza e in che senso il comunista del PCI fu un laico (secolare, ateo, ...); quanto il PCI ereditò, trasmutandolo, dal fascismo, e quanto cercò veramente di importare dall'esperienza concreta dell'organizzazione sociale dell'URSS.  E poi credo che un tema non banale sia quello delle conversioni, lo studio delle biografie di chi fu comunista e poi se ne allontanò, spesso denunciando e ripudiando, talvolta con rancore, una schiera ampia nel mondo e anche in Italia: da Tasca e Silone ai diversi diventati anticomunisti ai tempi della guerra fredda, e poi fino -con le dovute differenze da quelli-  a quasi tutta la dirigenza PCI che affrontò il 1989.

Manca un intervento sull'Italia 'rossa', e sarebbe invece uno studio che mi piacerebbe leggere, se scritto con la necessaria profondità di sguardo:  la realtà e il ruolo simbolico delle regioni 'rosse, le forme del particolare welfare popolare ivi attuato e il ruolo nella percezione comune (falsata?) di cosa il PCI fosse quando al potere. Nelle aree 'rosse', una impressione di massima è che una percentuale non piccola dei ceti popolari, da gli anni '60 del secolo scorso in poi, abbia potuto soddisfare le principali esigenze di vita (casa, beni di prima necessità, tutela del piccolo risparmio, socialità e ricreazione, sicurezza del reddito) grazie a una virtuosa combinazione di servizi delle organizzazioni 'rosse' (cooperative edili, circuito COOP, servizi sindacali, case del popolo e sport popolare, ecc.) e Stato sociale (scuola, salute, previdenza, informazione di Stato, ecc.). Il popolo di sinistra dell'Italia centrale ha così potuto vivere minimizzando il bisogno di prodotti (beni e/o servizi) forniti da imprese di capitali (con una battuta, hanno vissuto in una bolla a-capitalista).  Le domande al riguardo sono facili da formulare: come tutto ciò si sia formato e mantenuto, quale le condizioni (storiche, geografiche, economiche, sociali, istituzionali) e le politiche che lo hanno reso possibile; quanto tutto ciò abbia fatto parte dell'identità e percezione del proprio essere dei comunisti italiani e costituito l'immagine di che cosa una Italia rossa sarebbe potuta essere;  e inoltre quanto la realtà delle regioni 'rosse' e ciò che poteva suggerire fu in sintonia -piena o solo parziale?- con le altre componenti della koiné del partito (la lotta di classe e il ruolo del proletariato di fabbrica, la centralità leninista del partito, l'internazionalismo), ovvero quanto l'esperienza delle regioni 'rosse' fu veramente al centro della cultura profonda e della politica del PCI.

Last but not least, manca un intervento sulle fonti: cosa si possa trovare ancora nei fondi Comintern, se vi possano essere risorse nei depositi delle agenzie di sicurezza italiana, atlantiche ed ex-URSS, e da chi si potrebbe raccogliere utili testimonianze. Manca anche un intervento sulla storiografia 'ufficiale' del PCI sulla propria storia, e il ruolo che essa ebbe nella storia del PCI stesso.


martedì 5 gennaio 2021 (revisione: 5 gennaio 2021 21:54:42)

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Ho reso disponibile il mio articolo Gramsci, Cusumano, Bordiga su  academia.edu.