gramsci.giustizia.org

Note di biografia gramsciana,
e sulle vittime italiane delle epurazioni staliniane

You welcome

I post di gramsci.giustizia.org

giovedì 22 aprile 2021 (revisione: 28 marzo 2024 13:21:29)

Pons 2021. Appunti di lettura

Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri, Einaudi, Torino, 2021.

Test anchor
TESTO DI PONS PRESENTE PER COMODITÀ DI RIFERIMENTO. 
LETTURA CONSIGLIATA MEDIANTE ACQUISTO DEL LIBRO O SERVIZIO DI PRESTITO DA REMOTO VIA MLOL
  • su Silvio Pons, vedi il post su il suo libro su Berlinguer;
  • Pons ha una particolare attenzione alle ricerche di archivio, aiutata probabilmente da una ovvia facilità di accesso agli archivi del PCI conservati presso la FIG di Roma, ma anche da una notevole familiarità con i fondi del RGASPI di Mosca, e nel corso della sua carriera di ricercatore ha scoperto e reso noto molti documenti assai interessanti. Non mi sembra che in questo libro per il centenario del PCI citi documenti di nuova scoperta, ma diversi merita comunque segnalarli, per indicarne uno le note conservate a Mosca di un colloquio dell'ottobre 1944 tra Stalin e Churchill, in cui il primo rassicura il secondo che "Togliatti non è un politico incline a imbarcarsi in «avventure» senza sbocco", vedi.  Il libro non comprende una appendice documentaria, e per i documenti conservati a Mosca non viene indicato se siano stati pubblicati, o se siano almeno disponbili in copia presso la FIG.  (Per i documenti citati si cerchi 'Rgaspi' nelle note del testo di Pons, i link attivi collegano ai passi in cui ai documenti ci si riferisce).
  • 'I comunisti italiani e gli altri' offre una ricostruzione complessiva della storia del PCI sicuramente assai interessante. "Gli altri" del titolo rinvia alla esplicita impostazione di fondo, quella di leggere il comunismo italiano in una "un’ottica internazionale", e più esattamente sottolineando e studiando modi, prassi e dinamiche della "costruzione di senso dei nessi tra identità nazionali e appartenenze internazionali". In questo il libro io credo sia benvenuto, perché affronta con grande attenzione, senza inutili e ormai del tutto anacronistiche reticenze, e il beneficio di decadi di studi post collasso dell'URSS, la vexata quaestio dei rapporti del PCI con l'URSS, o meglio, più correttamente, dei rapporti con l'articolato complesso dei partiti comunisti nel mondo, dal 1921 fino al 1989.

    Assunto ma anche risultato dell'ampia ricostruzione di Pons è che il PCI appartenne a la rete transnazionale del comunismo (reale) mondiale, 'gli altri' del titolo è da intendere riferirsi a gli altri partiti comunisti (ed eredi della Terza internazionale). A quella rete, il PCI partecipò e vi fece riferimento, dal 1921 e fino alla fine, condividendone i riti, le dinamiche, anche centrifughe, e i suoi vincoli, pur nelle difficoltà e contrarietà, e forse soffrendo di qualche periodo di separazione in casa. (Dalla ricostruzione di Pons risultano del tutto artificiose eventuali letture per cui il PCI sarebbe via via diventato una forza genericamente progressista,  positivamente eclettica, con rapporti a 360º -e da considerare sullo stesso piano-con liberal-democratici statunintensi, socialdemocratici europei, cattolici democratici, vari terzomondisti e anche, ma tra i tanti, i comunisti).

    Stante questa impostazione, ci può domadare come  quella preferenza e correlato senso di appartenenza si formò, e poi, nelle varie fasi, si mantenne o si indebolì ; e poi anche con quali modalità di fondo il PCI si mosse in quelle relazioni preferenziali, con quali risorse, con quali capacità di lettura della realtà dei problemi del comunismo nel mondo, secondo quali strategie e tattiche, e secondo quali capacità di una loro rielaborazione e autocorrezione, e poi credendo a quali principi a carattere universalistico e con quale comprensione, nelle varie fasi, dei vincoli e/o delle possibilità che quella appartenenza imponeva e rispettamente concedeva.

  • La prima sezione della prima parte, I. Rivoluzione ed egemonia, è dedicata al formarsi ed evolversi della posizione di Gramsci nel contrasto tra PCdI e bolscevici russi, fino al noto scambio epistolare con Togliatti del 1926. Su quest'ultimo trovo interessante la conclusione di Pons: Gramsci non era ``volto ad affermare soltanto ragioni di principio e di politica nazionale del Pcd’I", Togliatti "non faceva valere esclusivamente ragioni di disciplina", ambedue ragionavano in termini internazionalisti, ma mentre "Gramsci si convinse che la frattura della vecchia guardia bolscevica potesse compromettere la risorsa simbolica rappresentata dallo Stato sovietico, quale condizione essenziale dell’egemonia internazionale [...]". Togliatti "non condivise questa persuasione e puntò invece sulla concreta solidità rappresentata dalla forza della maggioranza raccolta attorno a Stalin" (Per descrivere la posizione di Gramsci, Pons usa la nozione gramsciana di egemonia, anche se questa fu formulata e teorizzata da Gramsci stesso più tardi, durante la prigionia). Non sono invece convinto che la ricostruzione complessiva di Pons rappresenti adeguatamente come si sviluppò il contrasto contro Bordiga, l'evolversi delle stesse posizioni di Gramsci e le sue motivazioni, il peso -nell'affermarsi di Gramsci- della volontà della dirigenza bolscevica, e quindi i costi politici che ciò comportò in Italia tra il 1922 e il 1926, in particolare del come la diatriba, da una parte, sfibrò il PCd'I, limitandone l'azione in Italia, probabilmente più di quanto in genere si consideri e, da l'altra parte, non aiutò neppure una qualche forma di azione comune con i socialisti (questa seconda è questione annosa che Pons non affronta, forse perché fuori dall'impostazione di studio che si è dato).
  • Tradizionale e non convincente l'esposizione di Pons degli anni difficili, i terribili anni dal 1935 alla guerra nazista contro l'URSS, tra Stalinismo e antifascismo; in particolare Pons è troppo accondiscendente con il ruolo di Togliatti, il protagonista del suo racconto. Una qualche cautela, innanzitutto, Pons avrebbe dovuto mostrare nel riconoscere che molti passaggi sono ancora oscuri, e che diversi momenti di quegli anni delle biografie dei diversi protagonisti del comunismo italiano sono ancora da puntualizzare con la necessaria acribia, che le biografie più o meno ufficiali presenti in voci di enciclopedia, dizionari biografici, e libri di memorialistica sono tutte alquanto (auto)censurate se non del tutto omertose, e in gran parte da riscrivere. Sarebbe forse stato utile riconoscere che una ricerca sistematica delle fonti nascoste negli archivi, sopratutto russi ma non solo, non è mai stata compiuta in modo sistematico ed esauriente, e non tanto per difficoltà oggettive o chiusura degli archivi. Appare francamente censurabile che non siano ricordati per nome gli italiani emigranti politici in URSS, periti fucilati nel poligoni di tiro di Butovo o nel gulag di Severo-Vostočnyj, e lo stesso si può dire per l'omissione di ricordare Romano Cocchi, i motivi del suo dissenso, il suo destino. Raccontare il 1938 ricordando l'arresto di Robotti e non la promozione di Roasio nel centro ristretto di organizzazione creato nell'Agosto 1938 (Roasio vi fu insieme a Grieco, Berti e Di Vittorio), significa minimizzare oltre il lecito il ruolo di Togliatti in quei frangenti e ripetere acriticamente una ricostruzione di comodo e autoassolutoria che risale di fatto ai brevi cenni autobiografici di Togliatti stesso (su tutto ciò vedi il mio articolo Gli Elenchi).

    Relata alla questione di quanto Togliatti sapesse e/o condividesse della stagione delle fucilazioni, è la difficile ricostruzione delle (presunte?) difficoltà di Togliatti a Mosca tra il 1940 e il 1941, tra la (presunta?) ostilità delle sorelle Schucht e qualche commento avverso da dirigenti del PCE (Díaz, Ibárruri) che Pons ricorda. L'episodio della missiva delle Schucht, su cui Pons ha scritto un articolo, va forse ancora riletto con ulteriore attenzione all'esatto svolgersi della vicenda Gramsci negli ultimi anni della sua vita, e in particolare al coinvolgimento dell'Ambasciata sovietica a Roma in modi più quotidiani e determinanti di quanto la scarsa documentazione nota (mai ritrovata le carte diplomatiche sovietiche e neppure quelle della sorveglianza italiana a Formia) rilevi. Una qualche difficoltà di Togliatti, in quanto italiano, dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia all'URSS (giugno 1941, ma l'attacco alla Grecia è dell'ottobre precedente) credo fosse nell'ordine delle cose, e può spiegare qualche attenzione in più da parte sovietica. Si dovrebbe forse consultare sistematicamente le carte della Bloageva, se ancora presenti negli archivi, per capire quanto i commenti ostili furono presi sul serio.

    Più significativa l'interpretazione delle presenza di Togliatti in Spagna. La letteratura sulla guerra civile spagnola è assai ampia, e io ne ho minima conoscenza, per cui mi è difficile esprimermi. La domanda a monte è quanto le modalità della presenza sovietica in Spagna furono motivate, da un certo momento in poi (se non da subito) dal riorientamento della politica estera sovietica al patto con la Germania nazista, e nel caso quanto Togliatti se ne fece portatore ed esecutore. Difficile valutare i commenti di Pons circa il (presunto?) orientamento di Togliatti (e di Dimitrov) a formulare una politica più antifascista che anticapitalista negli anni prima della guerra, tema che Pons espone intrecciato a quello delle diverse opinioni sulla inevitabilità della guerra stessa, tema quest'ultimo che io però direi in gran parte da trattare su un altro piano. La narrazione di Pons avrebbe beneficiato di una esposizione più esplicita sia del significato e plausibilità ideologica delle diverse posizioni possibilmente in campo, sia delle diverse possibili interpretazioni degli atti e delle parole di Togliatti, e inoltre anche di una analisi più completa dei documenti, che il taglia e cuci di brevi citazioni fuori contesto non aiuta (leggi comunque l'articolo di Togliatti sul significato delle rivoluzione spagnola qui). Nelle parole di Togliatti, Pons tende a leggerci una analisi differenziata, scevra da schematismi e prefigurazione delle (presunta) novità politiche nel secondo dopoguerra italiano, ma a me pare che, tolte le frasi di propaganda, Togliatti descriva la situazione come quella di una rivoluzione democratico-borghese non assimilabile al '17, e il sottotesto potrebbe quindi ben essere stato quello che non era detto valesse la pena compromettersi in Spagna più di tanto, un sottotesto del tutto compatibile con i tatticismi di Stalin.

    Pons conclude il capitolo affermando che con "la guerra di Hitler a Est[si prefigura] la possibilità di un riscatto [per cui] le visioni, le analisi e le identità legate all’antifascismo costituivano una risorsa essenziale", chiusa io direi fin troppo generosa nei confronti di Togliatti, che più plausibilmente egli mi sembra debba invece essere ricordato per chi in modo convinto condivise modalità decisionali e scelte di fondo (e abilità tattiche) del gruppo dirigente staliniano come quelle che meglio potevano permettere il successo dell'URSS, e quindi del movimento comunista, nella competizione mondiale, e per questo del tutto giustificate, come appunto già nello scambio epistolare con Gramsci, nella stessa formulazione di Pons sopra citiata.
  • Ampia, ricca di dettagli, e con una tacita ma chiara attenzione alla storiografia anche più critica, è la narrazione della storia del PCI del secondo dopoguerra Influenze: internazionalismo e nazione (1943-1964. III. «Partito nuovo» e guerra fredda. Non potendo commentare la presentazione di ciascuno dei numerosi eventi ricordati da Pons, può forse essere sufficiente cogliere alcune conclusioni della sua ricostruzione. In effetti, la narrazione di Pons cerca un difficile equilibrio tra ii due poli, le ben note Scilla e Cariddi delle storia del PCI: le relazioni con l'URSS e quella che viene qui detta, con formulazione un poco ambigua, ``l’assunzione di una prospettiva legalitaria e parlamentare'' (io intendo che Pons attribuisca a Togliatti l'assunzione di una prospettiva di rispetto della democrazia pluralista, benché le espressioni non siano del tutto sinonime). Su modi, tempi, ruolo e idee del ritorno di Togliatti in Italia (e sulla svolta di Salerno), e poi anche in seguito, la sintesi di Pons è comunque che Togliatti ``mantenne una intesa a distanza con Stalin, risolutamente contrario ad azioni rivoluzionarie nei paesi sotto il controllo anglo-americano, che avrebbero potuto mettere a rischio la formazione della sfera d'influenza sovietica e i rapporti con le potenze alleate''. Su l'altro polo, la tesi principale mi sembra sia che ``a caratterizzare il progetto togliattiano [fu] più ancora che lo slogan di una «via italiana» al socialismo e la vaga idea della «democrazia progressiva», [il] carattere di massa [del partitto nuovo], rivolto a penetrare i diversi strati della società senza vigilare troppo la propria purezza ideologica''. Su il carattere di massa, la discussione credo debba essere più di storia sociale che di storia politica: la domanda del perché milioni di persone aderirono al PCI nel secondo dopoguerra non può essere risposta solo o sopratutto nei termini della scelta di un partito aperto e di massa. L'adesione fu il risultato dell'impatto emotivo del crollo statuale, dell'esperienza resistenziale e della violenza tedesca, e forse anche della difficile elaborazione della condizione di paese liberato e occupato allo stesso tempo dagli alleati; vi fu l'impatto delle migrazioni interne e della urbanizzazione di massa con il corollario della vita di fabbrica, e forse anche di una qualche serendipity delle precedenti mobilitazioni di massa fascista, e della forma mentis che in quelle si era in qualche modo formata. Analisi di questo tipologia, non facili ma imprenscindibili per capire, sono assenti dalla presentazione di Pons, con il rischio io credo di attribuire troppa efficacia al momento esplicitamente politico, e ai meriti di questa o quella strategia. Francamente, non credo che alcuna tra le figure apicali del PCI, per quanto purista, non sia stata ben contenta e rassicurata dall'ampio successo di adesioni. Il tema del partito di massa non credo sia derimente per una comprensione delle tensioni di fondo.

    Il rapporto con l'URSS è ovviamente la vexata quaestio della storiografia del PCI, e si può formulare con una qualche variante di una domanda controfattuale, per esempio: cosa sarebbe stato dell'assunzione della `prospettiva legalitaria e parlamentare' se Togliatti si fosse trovato ad agire nelle condizioni di uno dei paesi di quella che in quegli anni diventò l'Europa dell'Est? Ovvero quanto quell'assunzione era di principio, o comunque emerse da un qualche articolato ripensamento ideologico, e non fu sopratutto solo tattica, per quanto con proiezione temporale indeterminata, nelle condizioni date dei rapporti di forza (militare, più che politica) date? Sicuramente Pons sa di simili obiezioni, e forse avrebbe dovuto discuterle con maggiore attenzione (per quanto sia sempre difficile discutere proposizioni controfattuali). Per esempio, Pons da ampio spazio al timore togliattiano di una prospettiva greca, con due sottointesi: che con quel timore Togliatti dimostrò la profonda sua adesione alla via parlamentare, e che dovette contrastare quella parte del Partito, non marginale, seriamente attratta da una avventura insurrezionalista. Ma la corrispondenza ai fatti storici di ambo quegli assunti non mi sembra cosìevidente. Per esempio chi tra i presunti legalitari e i presunti insurrezionalisti fu più simpatetico a un Gomulka, che una qualche forma di pluralismo cercò di mantenere nella Polonia del dopoguerra? O anche, mentre il frasario di un Kardelj, nel 1946-48, era certo del peggior estremismo, l'esperienza jugoslavia era fin dalla guerra piuttosto indipendente e perfino qualificabile come una `via nazionale' , e quind i presunti insurrezionalisti italiani, per quella via, non espressero di fatto una qualche autonomia nazionale forse più seria di quel si ammette? O anche, io non vedo tutta quella evidenza che un Secchia non si sia reso conto che sarebbe stato un suicidio un qualsiasi tentativo di colpo di mano, anche solo nel Nord-Est, anche perché, per quanto ingenuo, anche Secchia avrà capito da subito che le relazioni tra Mosca e Belgrado erano tendenzialmente conflittuali -Pons stesso cita, da un documento interno del 1945 credo da lui ritrovato, vedi, un Togliatti che già paventa un conflitto tra URSS e Jugoslavia. Il timore di avventure alla greca non credo fu una vera preoccupazione, e comunque dimostrerebbe in Togliatti solo una particolare attenzione alle cautele della stessa dirigenza sovietica, piuttosto che adesioni di principio alla via parlamentare. Tra le sicure omissioni di Pons quella di non ricordare il ruolo di un Vidali come segretario del Partito Comunista del Territorio Libero di Trieste, sicuramente di nomina moscovita, sicuramente su posizioni non secchiane ma piuttosto togliattiane, sicuramente una vicenda che mostra come vi fu anche una `fortunata' convergenza tra gli ambienti della difesa dell'italianità e interessi sovietici di egemonia del movimento comunista, in cui Togliatti poteva trovare facile gioco.

    Pons si sofferma su molti episodi relativi alla vicenda del Cominform, dalle significative scelte delle delegazioni, al discorso `estremista' di Togliatti alla riunione del novembre 1949, ove ``Togliatti assunse consapevolmente la responsabilità di porsi in prima linea nell’internazionalismo staliniano della guerra fredda'' (ma per capire quel passaggio bisognerebbe forse sapere di più sulla veloce parabola di Andrej Ždanov, e di come allora la potè leggere Togliatti stesso). Pons enfatizza l'episodio della opposizione di Togliatti ad esser nominato alla guida del Cominforn (siamo nel 1951), che appare in effetti il primo dissenso esplicito di Togliatti con una preferenza di Stalin. Togliatti via da Roma, il partito in mano a Secchia e Longo, forse la storia del PCI sarebbe stata diversa, più primitiva e marginale, o forse solo più militante ma non per questo meno autonoma e creativa. E comunque le ragioni della contrarietà di Togliatti potrebbero essere state più prosaiche che la difesa di una idea di Partito nuovo, come suggerisce Pons. A Mosca intanto la rete di relazioni, anche protettive, di Togliatti degli anni '30 era dissolta- Dimitrov e la Blagoeva tornati finalmente in Bulgaria, Manuil'skij Ministro degli esteri fantoccio in Ucraina, la Stassova defilata- e poi sopratutto Togliatti vi avrebbe trovato uno Stalin con condizioni di salute in declino e tendenze definitivamente paranoidi. Anche senza scomodare le sue convinzioni politiche, Il carattere sempre e comunque cauto del dirigente italiano gli suggerì sicuramente di preferire la guida di un partito la cui base di militanti lo venerava come il `migliore' a una carica internazionale che tutti sapevano fittizia, e che infatti svanì senza notizia e rimpianti nel giro di pochi anni. Non si può escludere che Togliatti, per quanto stalinista, si avvide che si era al crepuscolo del dittatore, e si tenne lontano per evitare di essere coinvolto e travolto nella resa dei conti che poteva ben prevedere si sarebbe avuta da lì a poco.
  • Dove andò e/o cercò di andare il PCI dopo Stalin, fino alla morte di Togliatti? La sezione dedicata a quegli anni, IV. Policentrismo e decolonizzazione, si conclude con una apologia del memoriale di Yalta, riassunto con venature crepuscolari come la presa d'atto della crisi del mondo socialista: ``Il testamento politico di Togliatti [...] chiudeva un’intera epoca del comunismo, riconoscendo la crisi dell’interdipendenza stabilita sino allora tra la grande potenza dell’Unione Sovietica, la «superiorità» del suo sistema sociale, l’espansione politica e statuale del «campo socialista» e l’emergere del mondo postcoloniale.''. Mi sembra che Pons condivida la valutazione che molti dirigenti del PCI, e non solo Togliatti e la vecchia guardia, rimasero scettici su tutta l'esperienza di Chruščëv., e per alcuni aspetti del tutto contrariati, come dimostra la discussione nel PCI dopo il XXII Congresso del Pcus, che Pons correttamente ricorda, quando Togliatti bloccò ogni discussione su il destino degli italiani spariti nelle fucilazioni del 1937-38. (Con il senno di poi, risulta anche del tutto sorprendente che nessuno del PCI approfittò del viaggio di Chruščëv negli USA del 1959, per instaurare dei rapporti diretti con almeno qualche personalità USA, se non della politica, almeno in ambienti accademici, o sindacali.). Alcuni sparsi elementi che Pons cita qua e là fanno pensare che Togliatti abbia intuito da subito il via via crescente ruolo di Suslov, e si sia comportato di conseguenza, forse per quanto possibile perfino favorendolo, e sarebbe interessante raccogliere documentazione ulteriore per capire se così fu. Mentre le considerazioni di Togliatti nel memoriale testimoniano di una visione geopolitica ampia e articolata (ma forse non eterodossa, che si dovrebbe verificare cosa e come si discusse, magari anche con una certa libertà, nelle think tank sovietiche di allora), i fatti furono che comunque, ammesso anche avesse una aspirazione policentrica, Togliatti lasciò il partito di fatto schierato con Mosca nei principali dissidi, e né pensò che potesse essere possibile e/o desiderabile né agì per costituire un polo comunista a Roma, equidistante da Mosca, Belgrado e Pechino, ovvero emancipato dal rapporto preferenziale con Mosca.
  • Infine, circa la terza parte finale Trasformazioni: il tramonto dell’internazionalismo (1964-1984), in cui Pons espone una cronaca ricca ma forse ancora da meditare storiograficamente, indico solo alcune passaggi che non mi convincono.

    Pons scrive di Amendola: ``Amendola riteneva che il movimento comunista occidentale si trovasse in un vicolo cieco e che per questo fosse necessario il progetto di un nuovo partito del movimento operaio in chiave europea. Egli aveva però appreso la lezione di Togliatti contro il rischio di sopravvalutare l’esperienza italiana e manteneva fermo il legame con l’Unione Sovietica, limitandosi ad accentuare il giudizio sulla fine del suo modello universale13.''. La proposta di riunificarsi con i socialisti, o almeno con tutti quelli che non fossero dichiaratamente ostili, era stata già di Lenin, e su quella proposta Gramsci si emancipò da Bordiga; e poi si ritrova negli anni '30 in alcuni scritti di Egidio Gennari, dirigente dimenticato ma non secondario. Ed è complementare alla considerazione che in Occidente le cose non sarebbero andate come nel '17 russo, pure non estranea alle riflessioni di Lenin. Amendola si inseriva in una tradizione quindi piuttosto antica e costitutiva, anche se forse modulandola con propri toni moderati, e non vi era in essa una tensione tra prospettive contrapposte, o almeno non una che non fosse presente fin dagli anni '20.

    Della segreteria Longo, di cui vedi il post di commento alle monografie di Höbel, Pons scrive: `` Longo seguí le principali coordinate impostate da Togliatti e sviluppò le reti di relazioni del PCI ma nella sua azione è difficile vedere le tessere di un progetto ispirato al policentrismo, che del resto non gli era stato congeniale neppure negli anni precedenti. L’effetto immediato, come appare anche dalle memorie di Carlo Galluzzi,[...] fu quello di un riavvicinamento ai sovietici, che tendeva a ricomporre il relativo distanziamento creato dal «memoriale» di Togliatti. A questo fine Longo incontrò Brežnev nel marzo 1966 al XXIII Congresso del Pcus''. In effetti la lettura del libro di Galluzzi mi lascia ben altra impressione. Il problema non è del tutto secondario, stante che si tratta di capire, per esempio sul lato italiano, il ruolo comunista nella mancata unificazione socialista e nel fallimento della presidenza Saragat.

    Sicuramente interessante risulta la documentata cronologia dei viaggi e contatti internazionali del PCI e in particolare di Berlinguer, sia durante il triennio 1975-1977, a sostegno del tentativo di partecipare al governo italiano -un passaggio storico a cui Pons ha dedicato numerose pagine che meriteranno un post a parte-, sia per gli anni successivi, negli ultimi anni di vita di Berlinguer, dopo il fallimento del compromesso storico: Cina, Cuba, Algeria, Nicaragua, Jugoslavia. Di questi ultimi viaggi, a una prima lettura, sembra potersi dire - non so se leggo troppo nella scansione dei fatti presentata da Pons - che Berlinguer reagì al fallimento della partecipazione governativa in Italia, accentuando il distacco da Mosca (imputando a Suslov e Pomonariev di non averlo sostenuto contro Kissinger?), e cercando di costruirsi una presenza propria, anche oltre l'ipotesi eurocomunista, apparentemete nella speranza, velletaria?, di poter avere una risonanza internazionale allo stesso tempo ampia e autonoma.

    Segnalo una curiosità. Secondo un documento interno: ``All’inizio del 1977, Berlinguer fu informato da Ceauşescu che Brežnev aveva esplicitamente invitato i leader dell’Europa orientale a adottare un orientamento intransigente e aggressivo [verso il PCI] , puntando ancora una volta il dito contro l’europeismo dei comunisti italiani ''. L'esistenza di questo canale di informazione Roma-Bucarest corrisponde alla ricostruzione di Stefano Santoro e ad alcuni ricordi di Galluzzi, ed era di fatto di lunga data, ma certo, con il senno di poi, evidenzia limiti profondi della cultura della dirigenza del PCI.
  • Un ultimo appunto, del tutto tranchant. Dopo una prima lettura, una impressione complessiva è che Pons sia più accondiscente con Togliatti che con Berlinguer. Mi sbaglio?


martedì 23 marzo 2021 (revisione: 7 febbraio 2022 11:32:17)

Pons vs. Berlinguer, 3

Qualche pagina da Silvio Pons, «Berlinguer e la fine del Comunismo», Einaudi, Torino, 2006


Le scansioni, con qualche passaggio evidenziato, del capitolo «Lo 'strappo' riluttante»  di Silvio Pons,  «Berlinguer e la fine del Comunismo», Einaudi, Torino, 2006 (vedi post), capitolo dedicato ai dibattiti nel PCI nei giorni successivi al colpo di Stato militare in Polonia, 1980. Segue qualche ulteriore brevissimo commento.


Clicca sulla scansione per ingrandirla. Puoi scorrere le scansioni.

Tre passaggi che colpiscono:

  • il giudizio liquidatorio delle posizioni di Tatò, che pur di Berlinguer fu stretto consigliere;

  • la teoria, attribuita a Berlinguer, delle tre fasi storiche del movimento socialista: socialdemocratica (fino alla prima guerra mondiale?), sovietica, e -terza- quella auspicata con protagonista il "movimento operaio nell'Occidente europeo" (fase eurocomunista?).  Teoria che appare piuttosto bislacca, e che, se fu realmente teorizzata, fu un wishful thinking per evitarsi il dilemma, in effetti ineludibile, tra 'ci siamo sbagliati fin dal 1917' e 'nonostante tutto l'URSS è meglio e da difendere';

  • tra le righe, il danno di non aver lasciato andare Cossutta, che nelle note qui non riprodotte Pons suggerisce chiaramente che abbia agito in combutta con Ponomariov.

I motivi della riluttanza dello «strappo» furono probabilmente molteplici, e principale alla fin fine quello che nessuno modifica completamente delle ben radicate convinzioni con cui si è identificato per gran parte della propria vita (se non forse per eventi traumatici o a seguito di circostanze eccezionali). Valse comunque, io credo, non tanto il timore di un ampia emorragia di militanti e/o elettori -che non ci sarebbe stata (semmai ebbe un qualche peso il mito dell'unità)-, ma la contezza della difficoltà di collocare, nel quadro interno oltre che in quello internazionale, un PCI completamente divorziato da Mosca. Per il quadro interno, un qualsiasi tentativo di (ri)collocazione nell'area socialista (e di iscrizione all'Internazionale Socialista) avrebbe richiesto una modifica molto articolata di convinzioni, prassi di comportamento e apparati che nessuno ebbe di fatto la lucidità di affrontare (perfino dopo il 1989, e il campo libero lasciato dal collasso di PSI e PSDI, quella ricollocazione è stata molto parziale). Per il quadro internazionale, nessuno -nemmeno nei circoli iper atlantici- sembra che fu mai veramente interessato a un modifica di collocazione internazionale del PCI, in particolare se pensata fuori dalle specifiche strategie dell'alleanza atlantica, anche solo per il timore di contracolpi non programmati negli equilibri dello scenario europeo.


giovedì 11 marzo 2021 (revisione: 8 luglio 2021 22:52:02)

Liguori su Fabre

Una recensione corretta, ma poco generosa

Guido Liguori «Gramsci e lo scambio mancato», Critica Marxista, n.6, 2015, recensione di Giorgio Fabre «Lo Scambio. Come Gramsci non fu liberato», Sellerio, 2015; copia digitale reperibile a academia.edu (per comodità, copia locale).

Liguori ricorda qualche principio di cautela storiografica , indi i dati della vexata quaestio dei tentativi di scambio per la liberazione di Gramsci (e indica velocemente ma in modo esaustivo i documenti noti più pertinenti), poi riconosce quel che anche a me pare il merito principale del libro di Fabre: l'enfasi sul ruolo giocato -da un certo punto in poi-  dall'Ambasciata sovietica a Roma nella gestione della vicenda Gramsci , e accenna infine a un difetto obiettivo del libro, un qualche eccessivo aggiungersi di osservazioni e ipotesi non sempre in modo coerente tra di loro .

La contestazione centrale di Liguori però è un altra: egli contesta che "[Fabre] part[a] dal pregiudizio [...] secondo cui Gramsci in carcere era visto dal suo partito e soprattutto da Togliatti come un nemico. Un pregiudizio che riaffiora più volte, sia pure contraddittoriamente (perché argomenti in senso contrario vengono pure portati dall’autore), nel libro e che fornisce un fastidioso timbro di fondo di tutta la ricostruzione offerta"; un pregiudizio che io però non vedo così presente nel testo di Fabre, e semmai è in Liguori che traspare un pregiudizio a favore di Gramsci (peraltro non del tutto contrario a quello attribuito a Fabre), che egli fosse inviso ("messo in cattiva luce") a Stalin per le lettere del 1926, e che questo influì sulla vicenda, una ipotesi possibile ma non così sicura.

Sulla questione del mancato scambio le mie opinioni sono che non fu mai un vera opzione -non abbiamo nessuna evidenza che fosse considerata una opzione da parte del fascismo, di fatto non ci furono mai chiari vantaggi, per nessuno dei player principali, a perseguire uno scambio- e parlarne in qualche modo distorce il racconto di come andarono le cose. In questo senso la monografia di Fabre ha un vizio di impostazione iniziale, e le varie considerazioni di buon senso di Liguori sono condivisibili. Allo stesso tempo, vi è stata sicuramente una difficoltà, un imbarazzo successivo a raccontare i dettagli della vicenda Gramsci, e qualcosa deve essere chiarito per spiegare quel successivo imbarazzo: una circostanza, degli atti e/o una qualche responsabilità deve essere accaduta che poi indussero in una lunga reticenza. Se non fu un abbandonare Gramsci in carcere in quanto ormai 'nemico' (in effetti una totale sciocchezza, anche se si assume la contrarietà di Gramsci agli sviluppi sovietici, contrarietà che comunque non è manifesta e di cui si può discutere solo se si presta massima attenzione ai diversi aspetti  del particolarissimo contesto in cui Gramsci si trovava), ci deve essere comunque stato qualcosa che poi si evitò di raccontare.  Su questo Liguori sorvola, e per questo, io credo, la sua recensione, per quanto in molte osservazioni del tutto precisa, mi appare un poco pedante, e meno generosa di quel che poteva/doveva, che Fabre materiali e considerazioni per capire le origini di quel imbarazzo ne ha raccolti diversi e di interessanti, mettendoli a disposizione a tutti coloro che sono affezionati alla figura di Gramsci.